LE ‘NOSTRE’ PAROLE DI ZARATHUSTRA

Postato da Admin il 08 SET 2011

"L’editio sincera di Nietzsche, la collezione “Alter ego” di Ar, che ospita i testi del grande filosofo tedesco con l’originale a fronte, è giunta alla prova decisiva: la versione dello Zarathustra. Opera da far tremare le vene e i polsi per la profondità teoretica, per la purezza stilistica, per il labirinto di echi e rimandi in essa contenuti (illuminati con sorprendente virtuosismo dal Curatore). Il volume (di 590 pagine) vedrà la luce tra qualche mese, ma, data la sua importanza, vi proponiamo di divenirne già sottoscrittori da ora.

LE "CENTURIE NERE" PRECURSORI RUSSI DEL FASCISMO?

Postato da Admin il 28 giu 2011

"Il Fascismo non è nato in Italia e in Germania. Ebbe la sua prima manifestazione in Russia, col movimento dei “Cento Neri”, completo già all’inizio del 900 nelle sue azioni e nei suoi simboli: la violenza politica, l’antisemitismo feroce, i neri stendardi col teschio. “Maurizio Blondet in -Complotti- (Il Minotauro, Milano, 1996, pag.83)...

Steno Lamonica intervista Silvia Valerio

Postato da Admin il 07 SET 2011

Silvia Valerio, ha pubblicato nel 2010 il libro “C’era una volta un presidente”, la fabula milesia dei suoi diciott’anni. Tutt’attorno, eroi, prove, comparse, antagonisti, e qualche apokolokyntosis. "L’invidia… talvolta, in uno di quelli che volgarmente chiamano trip mentali, vedo di fronte a me una nuova versione del Giudizio Universale, un po’ psichedelica e sadica, dove Dio, o chi per lui, affossa ed esalta in base alle reazioni delle anime di fronte a un’opera di Botticelli. Lo so, sono rimasta scioccata da chi al liceo sosteneva che Botticelli i piedi li disegnasse male."

COME IL MONDO ANTICO È DIVENTATO CRISTIANO

Postato da Admin il 27 Set 2011

"Da parte di diversi autori è stato osservato che il cristianesimo si è potuto diffondere con relativa rapidità nel mondo antico, incontrando relativamente poca resistenza, in una maniera che è stata paragonata a un contagio, un'epidemia le cui cause sembrano in qualche modo misteriose, nonostante la sua evidente carica di sovversione e dissoluzione nei confronti del mondo e della cultura antichi.

La Spagna tra Goti Arabi e Berberi in uno degli ultimi scritti di J.A.Primo De Rivera

Postato da Admin il 21 Ott 2011

Ebbe a scrivere Maurice Bardeche in “Che cosa è il Fascismo” (Volpe, Roma, 1980, pag.47) “Il solo dottrinario di cui i fascisti del dopoguerra accettano le idee all’incirca senza restrizioni, non è né Hitler né Mussolini, ma il giovane capo della Falange, il cui destino tragico lo sottrasse all’amarezza del potere ed ai compromessi della guerra”, Frase bellissima come tante altre nel libro del Bardeche, ma che non ha mai completamente convinto chi scrive.(1).

Il processo al questore Caruso nelle giornate a Roma dopo Via Rasella e le Fosse Ardeatine
Michele De Feudis 11-12-2011, "Il Tempo"

Gli orrori vissuti a Roma tra regime in dissoluzione, occupazione tedesca e prime epurazioni: Zara Algardi scrisse nel 1944 "Il processo Caruso", eccezionale resoconto della vicenda giudiziaria conclusa con la fucilazione del questore fascista della Capitale, burocrate tetro e protagonista delle drammatiche giornate costellate dall’attentato terrorista a Via Rasella e dalla rappresaglia-eccidio delle Fosse Ardeatine. La casa editrice Ar (info@libreriaar.com) ne propone la ristampa anastatica con il titolo: «Furor di popolo» (pp.316, euro 23). Si tratta di un documento prezioso per comprendere il clima del tempo. Emergono così i profili degli imputati nel processo, Pietro Caruso e il suo collaboratore, Roberto Occhetto, la connivenza con le forze germaniche di Pietro Koch e della sua efferata banda, l'ignavia colpevole del ministro Guido Buffarini Guidi. Infine il martirio del direttore di Regina Coeli Donato Carretta, uomo probo, straziato dalla reazione della piazza che, nel tentativo di linciare il questore finì per ucciderne il principale teste dell’accusa.




Chi era Carretta? «La sua figura (…) è apparsa quella di un capace funzionario, onestissimo e umano, il quale nel periodo della dominazione nazista collaborò, prodigandosi con rischio gravissimo personale e della famiglia, col Comitato di Liberazione». Antonina Ficotti, che aveva appena perso il marito alle Fosse Ardeatine, scambiò Carretta per il fucilatore del consorte e scatenò la furia cieca dei presenti all’udienza del processo contro Caruso. Il direttore del penitenziario fu prima protetto dalle forze dell’ordine, poi condotto in un corridoio esterno all’aula di giustizia e linciato dalla folla. Gli aggressori lo volevano far investire da un tram, ma l’autista, Angelo Salvatori, si oppose alla «massa incandescente»: mostrò la sua tessera del Pci, bloccò i freni del mezzo e nascose la manovella che avrebbe potuto azionarne la corsa. Carretta allora fu lanciato nel Tevere dal Ponte Umberto e percosso a lungo con un remo da due uomini su una barca che lo raggiunsero e lo finirono. Il corpo senza vita fu appeso a testa in giù all’ingresso del carcere romano. Il "furore del popolo" quando crolla un sistema politico ripete sempre gli stessi barbari riti: a Regina Coeli per Carretta; a Piazzale Loreto con Mussolini e Claretta; solo qualche mese fa in una polverosa strada in Libia, sul cadavere di Gheddafi.



Zara Algardi. - Furor di popolo.
Nel 1944, Caruso, iscritto al Partito Fascista sin dal 1921, fu nominato questore a Verona rimanendo con questa carica nella città solo una quindicina di giorni, giusto il tempo necessario per dirigere l'ordine pubblico in occasione della fucilazione dei membri del Gran Consiglio condannati a morte dal tribunale speciale. Egli tuttavia non partecipò all'esecuzione anche se vi assistette in qualità di questore. Fu successivamente nominato Questore di Roma, dove rimase fino al giugno del '44, quindi anche durante i fatti di Via Rasella. Il processo sarà breve (20 e 21 settembre 1944) e Pietro Caruso venne condannato a morte per fucilazione. Dal preambolo editoriale di F.G. Freda: […] Narra diversi eventi questo libro che contiene il resoconto stenografico integrale del processo al questore nazifascista di Roma Pietro Caruso. L’indice delle pagine, che qui funge pure da sommario degli argomenti, li segnala con chiara semplicità. Diversi eventi rappresentati con la passione e annotati con il ressentiment antifascista: eccidio di via Rasella rappresaglia delle Fosse Ardeatine linciaggio di Donato Carretta processo e morte di Pietro Caruso scorrono in sequenza rapida e rapinosa.[…]
Pp. 346 con 21 riproduzioni fotografiche. Preambolo editoriale di F.G. Freda. Ristampa anastatica. Collezione Adel. 2011. Euro 23,00



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Presentiamo qui, per la prima volta in italiano, le discusse lettere e gli scritti di Louis-Ferdinand Céline alla stampa collaborazionista francese. Queste lettere, assieme ai cosiddetti pamphlet, hanno consegnato definitivamente Céline al destino di “Grande reprobo”, sentenza capitale emessa dal Comitato di Grande Purificazione progressista[1]… e rendendolo un feticcio per altri, che riducevano la biobibliografia di Céline ai soli pamphlet, facendone un alfiere del Volk, del Reich e del Führer… ignorando le palle incatenate sparate dal nostro contro praticamente tutti i politici di Vichy, i nazisti e Hitler![2] Nonostante alcuni studi recenti abbiano cercato di dipingere Céline come in realtà lontano dagli ambienti collaborazionisti[3], oppure addirittura come “un comunista”[4], la lettura delle lettere qui integralmente pubblicate, e le recenti, ulteriori inedite testimonianze relative all’attrazione di Céline verso i partiti nazionalisti europei e d’oltremare[5] illustrano chiaramente la visione politica di Céline.




Che poi questa visione non fosse quella dell’ortodossia nazionalsocialista, e attraversata invece com’era da un fiero patriottismo “retrò” e da un socialismo ingenuo[6], e che il comportamento di Céline all’interno del pur variegato mondo della Collaborazione francese fosse più orientato all’anarchia polemica che all’Ordine e Disciplina, non è un fatto che possa stupire chi conosca seppur in maniera cursoria la vita del Nostro. È interessante a tal riguardo notare come Céline fu nella quotidianità ben lontano dai tetri propositi dei pamphlet, punto efficacemente sollevato da Karl Epting[7] in un suo ricordo di Céline:




Già durante la mia prima visita a rue Lepic, poco dopo la pubblicazione di Bagatelles, mi avevano sorpreso il potere soprasensibile e quasi medianico del suo sguardo sugli uomini e sulle cose, e contemporaneamente il contrasto profondo tra la sua presa di posizione verso le collettività impersonali, per esempio, americane, inglesi, russe, ebraiche e massoniche, nella quale poteva essere di una crudeltà che, nei suoi discorsi, arrivava sino al parossismo, e il suo comportamento verso l’individuo concreto, uomo o animale che fosse, nel quale non ha mai cessato di restare il medico e il protettore. La vita e l’opera di Céline non acquistano significato che attraverso la sua professione di medico, ed è solo partendo da là che esse possono essere comprese nel loro doppio significato. Nel suo essere tra queste due condizioni, nel doppio sguardo che ha gettato verso un lontano dai contorni indecisi e in un cerchio ristretto su di un essere corporeo vicino, hanno messo radice i numerosi malintesi che hanno reso così dura la vita a Céline e alla sua compagna.



Tornando alla “visione politica” di Céline, e rendendoci pur conto che pensare di riuscire ad apporre sul pensiero del nostro una comoda etichetta sia fatica di Sisifo, forse un termine che più si avvicina a delineare la sua sensibilità è “antimoderno”, anzi, “anticontemporaneo”, nel senso ben delineato da Giancarlo Pontiggia, traduttore tra l’altro del Bagatelles, nel suo scritto Cinécéline:




Quello che oggi chiamiamo mondo contemporaneo può essere compendiato nelle parole “democrazia”, “sinistra”, “America”, tre parole così diverse tra loro, e che pure, proprio nel loro intricarsi, definiscono il carattere del Novecento. E qui Céline, nei romanzi come nei terribili libelli antisemiti e anticomunisti, urla delle verità che nessuno aveva mai saputo dire con tanta forza: la tempesta della chiacchiera ha ormai rimbambito il mondo, lo ha reso come un pugile suonato, come un idiota pronto a ingoiare tutto. I sistemi democratici, le istituzioni democratiche, sono diventati dei circhi equestri, delle palestre di buffoneria a buon mercato. Ma questo è Céline, direte: no, questo è il mondo nel quale viviamo, che Céline è stato il primo, forse l’unico, ad aver denunciato. Senza ombrelli ideologici, senza vanità, senza protezione, senza speculazione: del resto non c’è niente di più sterile e noioso che leggere tutti quegli scrittori impegnati che denunciano in nome di un partito, di un’idea[1][1][8].

Ad ogni modo, discutere a fondo dei motivi che spinsero Céline a scrivere le righe sulfuree dei pamphlet[1][1][9], o queste lettere, necessiterebbe di uno spazio ben maggiore che questo libretto[1][1][10]; basti dire che per noi gli scritti sopra citati non spostano di una virgola non solo il giudizio - un capolavoro - sull’opera letteraria di Céline, ma anche sulla vita del Dr. Destouches, che ha dimostrato, nel concreto delle sue vite di soldato, scrittore, e di medico del lavoro prima, e dei miserabili della banlieu poi, di essere infinitamente superiore, moralmente e letterariamente, alla stragrande maggioranza dei suoi critici.

Andrea Lombardi

 

 



22
Lettera a Lucien Combelle, Dalla parte di Proust, di L.-F. Céline, in “Révolution nationale”, n. 71, 20 febbraio 1943, p. 3.
Traduzione di Valeria Ferretti.

Mio caro Combelle,
Ecco ritornare Proust. Gran Tema! Fernandez[11] pubblica su di lui un libro. Brasillach, un magnifico articolo in cui lo consacra, all’incirca, il più grande romanziere “puro” della letteratura francese. Non ne buttate più! Gli organizzatori dell’Esposizione 36 hanno preceduto Brasillach e Fernandez in questa opinione. Hanno saputo piazzare Proust sullo stesso piano di Balzac: stessa importanza, stessa gloria, stesso merito. Benissimo. Ma sono certo che alla prossima Esposizione 36 con gli stessi organizzatori, Balzac verrà relegato questa volta al decimo piano e Proust, e Bergson, e Marx da soli in primissimo piano, incontestati, incomparabili. Senza rivali ormai. Abbiamo assistito nel ’36 a un ripetersi di apoteosi, una preparazione dell’opinione letterata… Il gioco è fatto. Si cavilla molto su Proust. Questo stile?... Questa costruzione bizzarra? … Da dove? Chi? Che? Cosa?
Oh! È semplicissimo! Talmudico. Il Talmud è all’incirca costruito, concepito, come i romanzi di Proust, tortuosi, arabescoide, mosaico disordinato. Il genere senza capo né coda. Da quale parte prenderli? Ma in fondo infinitamente tendenziosi, appassionatamente, ostinatamente. Lavoro da baco. Questo passa, ritorna, rigira, riparte, non dimentica niente, all’apparenza incoerente, per noi che non siamo Ebrei, ma di “stile” per gli iniziati! Il baco lascia così dietro di sé, come Proust, una sorta di tulle, di vernice, iridato, impeccabile, capta, soffoca, riduce tutto ciò che tocca e sbava – rosa o stronzo. Poesia proustiana. Quanto al fondo dell’opera proustiana: conforme allo stile, alle origini, al semitismo: designazione, mascheramento delle élite marce nobiliarie mondane, invertite, ecc., in vista del loro massacro. Epurazioni. Il baco passa sopra, sbava, le irida. Il carro armato e le mitragliette fanno il resto. Proust ha compiuto il suo compito, talmudico.
Mi pensa ossessionato? Mio Dio, no! Il meno di tutti!
Viva Proust! Viva il Talmud! Se vuole. Non sono indifferente.  Lungi dall’idea. Sono prontissimo a riconoscere il genio talmudico. Centomila prove, ahimé! L’occultamento, l’inganno, da soli, mi feriscono.
Notiamo ancora che Proust salva, tenta di salvare, la sua famiglia dai massacri spirituali che reclama e pratica per noi! Da qui tutta quella tenerezza, quella compassione per la nonna, d’altronde molto ben accetta, ne convengo, riuscita, e di cui tutti i critici ariani a giusto titolo si stupiscono.
Mi vede un po’ prevenuto.
Se vivesse ancora, da quale parte starebbe Proust?
La lascio pensare.
La caduta di Stalingrado[12] non gli farebbe certo nessuna pena.
E molto cordialmente la saluto.


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Lettera a Henri Poulain e al “Je suis partout”, 15 giugno 1942[13].
Traduzione di Valeria Ferretti.

Fouesnant il 15 giugno

Mio carissimo Poulain,

mi coglie su due piedi! Ah, capita bene! Capita a fagiolo! Mi chiede un articolo. Prenda questa lettera e a gratis! Celebrare un anniversario? Quello dei Beaux draps? Perbacco! Sempre proibiti! I governi si succedono, mandano avanti i loro gran cavalli[14], le loro fanfare, e patatì e patatà… e niente cambierà intendiamoci. Glielo dico molto educatamente. La storia della Francia va avanti. Piccolissimo indizio mi dirà: narcisismo d’autore che vede il mondo solo dal suo ombelico. La Francia continua! Come vorrà! Andrà avanti senza di me! Non se n’avrà a male.
Maurois, Bernanos, adulati, classici a Tolosa[15], Céline nella merda.
Domani Duhamel grande censore. Tutto questo è proprio regolare, può sorprendere solo un coglione. La Francia odia istintivamente tutto ciò che le impedisce di darsi ai negri. Li desidera, li vuole. Buon pro le faccia! Che si dia! tramite l’Ebreo e il meticcio, tutta la sua storia in fondo è solo una corsa verso Haiti. Quale ignobile cammino percorso dai Celti agli Zazou[16]! Da Vercingetorige a Gunga Diouf[17]. Tutto qua! Tutto sta lì! Il resto non è che farsa e discorsi. La Francia muore dalla voglia di finire negra, la trovo piuttosto a puntino, marcia, zeppa di meticci. Mi fanno proprio ridere quando mi dicono 5 o 800.000 ebrei in Francia! La battutona! Solo San Luigi[18], l’eletto, ne fece battezzare 800.000 tutti in una volta nella Narbonense[19]! Pensi se hanno avuto prole! Altri 50 anni, e nemmeno un francese che non sia meticcio di qualcosa in “ide”, araboide, armenoide, bicoide, polaccoide… E chiaramente “francese” 100.000 volte più di lei e di me.
L’arroganza “patriottica”, la faccia tosta, è sempre in proporzione al meticciaggio, alla giuderia personale. Un altro bel giornale è da creare, molto opportuno, il “giallo e nero” emblema del futuro francese. Se la guerra civile fosse durata sarebbe del resto già fatto. Avremmo due milioni di morti, ariani, sostituiti immediatamente (Mandel dixit) da due milioni di asiatici e di negri, il grande programma ebreo. Tutto il resto è iperbole, discorso iperbolico, chiacchiere per Arthur[20]. Costituisca in Francia un parlamento secondo le razze (e non secondo i più bavosi) e troverebbe soltanto un’ala destra “Vercingetorige” insignificante per numero, il residuo delle origini, gli avanzi dei “Celti”, umiliati da un centro enorme, sbraitante, imperativo recriminante, maggioritario schiacciante, la palude degli ibridi, gracchianti, per ordine di Blum, e composto da tutti i negroidi del mondo, armenoidi, assirioti, narbonoidi, ispanioti, alvernoidi, pétanisti, semiti maurrassici, ecc. ecc. tutto quello che urla di più “francese” e si sente sempre più cafro, e poi un’ala sinistra mora, in piena crescita. Ben più simpatici a dire il vero a paragone i tipici “Abd-el-Kader” nubiani, “Gunga Diouf”, gli ilari, gli eredi celti. Ridurre l’ala destra in schiavitù, farla sparire, ecco qual è l’ideale quasi confessato di quel parlamento. Nessuna bavosa protesta, mani sul cuore! Grazie! Tutti i meticci, gli allogeni, i Maurras, sono mossi da un odio sordo, animale, irriducibile per tutti i Celti e i Germani. Il Parlamento razziale francese nella sua maggioranza schiacciante desidera con tutto se stesso la sconfitta assoluta della Germania e del suo ideale razzista. Bisogna come proclama Churchill “cancellare l’Hitlerismo dalla mappa del mondo”. Mi spiego. Il padiglione nazionale francese copre tutte le mercanzie. La Francia attuale così meticcia non può essere che antiariana, la sua popolazione assomiglia sempre più a quella degli Stati uniti d’America. Stessi auspici, stessa politica profonda. Attoniti dappertutto riuniti per ordine ebreo, più qualche rimasuglio nordico e celtico a rimorchio, del resto fusi, in via di estinzione (suppergiù come i pellirossa). Veda le nostre squadre nazionali sportive, accozzaglie grottesche, frettolose ammucchiate di non importa chi, pescati non importa dove, dall’Africa alla Finlandia!
Il colpo di grazia, senza dubbio, ci fu inferto dalla guerra del ’14-’18: due milioni di morti, più di cinque milioni di feriti e di abbrutiti dai combattimenti e dall’alcol, ossia tutta la popolazione maschile valida, (in maggioranza ariana ben inteso) sfinita, annientata. E tra questi certamente tutti i nostri quadri reali, tutti i nostri capi ariani. La faccenda dei capi! La massa non conta.  È plastica, anonima, fa carne, peso di carne, tutto qui. La guerra, la vita lo dimostrano. La massa, la truppa non vale che solo attraverso i suoi quadri, i suoi capi. La truppa meglio inquadrata vince la guerra. È il segreto, il solo. I nostri capi, i nostri quadri sono morti durante la guerra super criminale del ’14-’18. Sono stati immediatamente sostituiti al volo dall’afflusso degli armenoidi, araboidi, italoidi, polaccoidi etc. tutti estremamente avidi, cullati da sempre nel sogno, nei loro paesi infetti, di venire a recitare qui la parte dei capi, di asservirci, conquistarci, (senza alcun rischio). Un ottimo affare! I nostri eroi del ’14-’18, cedettero loro senza esitare i posti ancora caldi. Furono occupati immediatamente. 4 milioni di pulcinella anti-francesi nell’anima e nel corpo, soltanto francesi di chiacchiera, si è visto bene quanto valessero i quadri Boncourt, i naturalizzati Mandel durante la guerra ’39-’40!
Le donne si sposano con ciò che trovano! Certo! Nuova fioritura di meticci! Che commedia! Che lupanare! E così sia!
“Vengono fin tra le nostre braccia! Sgozzare, ecc.” non sono affatto i “feroci soldati” a devastare e distruggere la Francia quanto piuttosto i rinforzi negroidi del nostro stesso esercito. Per essere precisi, non sgozzano niente di niente, montano. Ed è l’imprevisto della “Marsigliese”! Rouget non aveva capito niente, la conquista, quella vera, ci viene dall’oriente e dall’Africa la conquista intima, quella di cui non si parla mai, quelle dei letti. Un impero di 100 milioni di abitanti di cui 70 milioni di caffellatte, per volere Ebreo è un impero in via di diventare Haitiano, in modo del tutto naturale. Siamo completamente abbrutiti? È un dato di fatto, per via dell’alcol e dell’incrocio, e poi per molte altre ragioni… (veda i Beaux draps, proibiti…)
Anestetizzati, insensibili al pericolo razziale ? Lo siamo, è evidente. 50.000 stelle gialle non cambieranno niente. La Francia intera per un po’, più dreyfusarda che mai, per simpatia così cristiana, sfoggia con fierezza il simbolo giudaico. Nuova Legione d’onore, zazou, molto più giustificata dell’altra. E tutto per Blum e per de Gaulle!
Maturi per essere colonizzati ? Lo siamo! Da non importa chi! Parlare di razzismo ai francesi, è parlare di sangue puro ai nordafricani, stesse reazioni. Non si fa piacere a nessuno. Vichy si occupa, sembra del razzismo, a modo suo, come si occupa dei miei libri, ha offerto al Sig. Carrel[21], fachiro, Lion-New-Yorchese, 50 milioni di crediti (Bouthiller[22]-Reynaud) per occuparsi della faccenda. Vada un po’ a chiedere a Claude Bernard quel che pensa del problema ebraico!... Sarà servito. All’incirca quel che pensano, immagino, il Sig. Spinasse[23] e il generale Mac Arthur[24]!
“Si figuri raccontano i suoi assistenti che se il Sig. Bergson fosse ancora qui, i tedeschi gli farebbero indossare la stella gialla!”
Altrettanto attaccabriga!
Allora bella cosa, ci dica lei stesso, un po’, quel che preconizza? Ah! quant’è più delicato… scomodo… arduo… crudele… che Dio mi guardi dal potere! Dalle pesanti confidenze popolari ! Le ridurrò tutte in poltiglia ! Taglierei innanzitutto la Francia in due parti. Per la comodità delle cose, la tranquillità dei partiti. Lo slogan “Una, Indivisibile” mi è sempre sembrato una cosa da “massoni”.
Al punto in cui siamo arrivati nella decadenza, saremo per forza le vittime nell’“Indivisibile” noi gente del Nord, poiché è il Sud che comanda, cioè l’ebreo. I Romani troppo meticciati si sono dati due capitali, farò altrettanto. Marsiglia e Parigi. L’una per la Francia meridionale, latina se vogliamo, bizantina, “sovralgerica”, tutto ai meticci, tutto agli zazou, dove si avrebbe tutto il piacere, tutta la libertà di ospitare, amare profondamente tutti i più bei ebreoni del mondo, di eleggerli tutti deputati, commissari del popolo, arcivescovi, druidi, geni, di farsi inculare da loro, all’infinito, aspettando di diventare tutti negri, questione di trenta o cinquanta anni,  per come vanno le cose, di raggiungere infine lo scopo supremo, l’ideale delle Democrazie.  L’altra per la Francia “a nord della Loira” la Francia lavoratrice e razzista, senza Blum, senza Bader[25], se possibile, nemmeno senza Frot[26], è da tentare. Credo che sia forse il momento di attuare alcune grandi riforme… La Francia tipo Santo Domingo non mi interessa davvero. Può farsela chi si presenta, me ne frego alla grande. Mi dispiace semplicemente di aver lasciato tanta carne (75 per 100)[27] per difendere questa porcheria che non sogna altro che Lecache. Una così grande guerra, tanta miseria, per andare da Rotchild [sic] a Worms! Ci vorrà davvero del nuovo per farmi ritornare patriota. Credo che sarà per un’altra volta, forse per un altro mondo, quello dei morti se ho ben capito, la vera patria dei testardi.
A lei Poulain! Stia ben attento! Ah ! non mi tradisca! la minima parola ! tutte le virgole! e coraggio!

L.F. Céline

P.S. Mi metta da parte 10 numeri!



Louis-Ferdinand Céline, «Céline ci scrive - Le lettere di Louis-Ferdinand Céline alla stampa collaborazionista francese, 1940-1944»
A cura di Andrea Lombardi
Prefazione di Stenio Solinas
F.to 15x21, pagg. 240, numerose ill. in b/n, brossura, euro 25,-
Edizioni Il Settimo Sigillo, info@libreriaeuropa.it, tel. 06.3972.2155

Da "Il Giornale" del 30 giugno 2011: Tra le iniziative editoriali che ricordano i cinquant’anni dalla morte di Louis-Ferdinand Céline (nato nel 1894 e morto il 1° luglio 1961), la più importante è senza dubbio la pubblicazione delle lettere dello scrittore alla stampa collaborazionista francese fra il 1940 e il 1944: Louis-Ferdinand Céline, «Céline ci scrive - Le lettere di Louis-Ferdinand Céline alla stampa collaborazionista francese, 1940-1944» (Edizioni Il Settimo Sigillo, pagg. 240, euro 25; info@libreriaeuropa.it, tel. 06.3972.2155). Curato da Andrea Lombardi, il libro ha una lunga prefazione – di cui anticipiamo in questa pagina una parte – di Stenio Solinas, firma storica del «Giornale». Tra i temi toccati da Céline in queste lettere-articoli «maledetti», tutti tradotti per la prima volta in italiano, alcuni sono più «urticanti» (il collaborazionismo, Vichy, gli ebrei, il razzismo, come nel lungo articolo-intervista a Jamet o la lettera dove lo scrittore auspica una divisione etico-etnica nord-sud della Francia), altri sono invece più letterari (contro Proust, contro Peguy, la lettera a Théophile Briant…). Nel volume sono anche riprodotte le pagine originali delle ormai introvabili riviste e quotidiani dove apparvero gli scritti tradotti, mentre le appendici comprendono anche la risposta di Céline alle accuse della Procura francese, il ricordo di Karl Epting, un testo sulla cultura politicizzata della Sinistra in quegli stessi anni, uno sui rapporti tra gli intellettuali francesi e tedeschi, e numerose fotografie.
 


[1] “Definitivamente” perché il suo rifiuto di schierarsi tra le file degli autori della sinistra francese dopo il successo del Voyage e il primo entusiasmo per questo autore che denunciava nel suo best-seller guerra, colonialismo e capitalismo, lo aveva già reso sospetto agli occhi dei Sartre-de Beauvoir e degli Aragon. Come noto, Jean-Paul Sartre stimava Céline tanto da citarlo in epigrafe al suo romanzo La nausée, e Louis Aragon tentò più volte di portare Céline a prendere posizione nella sinistra; Céline rispose agli appelli della gauche con questa lettera del 1934 a Elie Faure…

Sono anarchico da sempre, non ho mai vo­tato, non voterò mai per niente né per nessu­no. Non credo negli uomini. Perché vuole che mi metta d’improvviso a suonare lo zufolo so­lo perché decine e decine di falliti me lo suo­nano? io che me la cavo piuttosto bene col pianoforte? Perché? Per mettermi al loro livel­lo di gente meschina, rabbiosa, invidiosa, pie­na d'odio, bastarda? Questa è davvero buona. Non ho niente in comune con tutti questi froci - che sbraitano le loro balorde supposizioni e non capiscono nulla. Si immagina a pensare e a lavorare fra le grinfie di quel gran coglione di Aragon, per esempio? Questo sarebbe l'av­venire? Colui che dovrei adorare, è Aragon! Puah! […] Non sente, ami­co, l’Ipocrisia, l’immonda tartuferia di tutte queste parole d’ordine ventriloque! […] I nazisti mi detestano al pari dei socialisti, e i comunisti anche, senza contare Henri de Régnier o Comoedia. Si in­tendono tutti quando si tratta di sputarmi ad­dosso. Tutto è permesso tranne che dubitare dell’Uomo. Allora non c’è più niente da ri­dere.
Ho fatto la prova. Ma io me ne frego, di tutti.
Non chiedo nulla a nessuno.

…e più in generale, con il passo sotto riportato dell’“Omaggio a Zola” da lui pronunciato a Médan nel 1933:

Noi siamo giunti alla fine di venti secoli di alta civilizzazione e, comunque, nessun regime potrebbe resistere a due mesi di verità. Io voglio dire che vedo la società marxista uguale alla nostra borghese ed a quelle fasciste.

[2] Ricordiamo a tal proposito il seguente aneddoto, citato da Lucien Rebatet nelle sue memorie, v. bibliografia:

Céline, che non beveva un goccio di vino, intavolò [durante una cena a Sigmaringen] un accanito parallelo tra la sorte delle “spie”, che avevano trovato il modo di farsi sconfiggere, per rientrare però subito nei loro ranghi di bravi soldati e bravi cittadini, con la coscienza pulita, non dovendo rendere conto a nessuno ed avendo assolto il loro dovere di patrioti; e quella dei “collaborazionisti” francesi che avevano tutto da perdere, beni, onori e vita, in una simile impresa da fessi. Quindi Céline non vedeva più cosa gli potesse impedire di proclamare che la divisa tedesca l’aveva sempre avuta in antipatia e che altrettanto non era stato abbastanza ponderante per immaginarsi che sotto un’egida del genere la collaborazione non poteva essere che un terribile maleficio. Gli altri gradi militari presenti avevano però deciso di trovare la battuta eccellente, rallegrandosene assai, e quando Ferdinand andò a dormire, venne rimpianto.

[3] Per esempio Marina Alberghini nella sua peraltro documen­tata biografia dedicata a Céline, v. bibliografia.
[4] Stefano Lanuzza, Maledetto Céline, Roma 2010.
[5] Come la fotografia attestante la presenza di Louis-Ferdinand Céline ad un raduno del Partito Nazional Socialista Cristiano canadese nel 1938, pubblicata in Jean-François Nadeau, Adrien Arcand, führer canadien, Montréal 2010.
[6] Il “comunismo Labiche” tratteggiato in Les Beaux Draps.
[7] Direttore dell’Istituto tedesco di Parigi tra il 1940 e il 1944; il testo completo è riprodotto in appendice. In questo Céline fu simile ad un altro grande scrittore a parole antisemita, omofobo, xenofobo, razzista e filotedesco: Howard Phillips Lovecraft, che come noto sposò una ebrea russa, fu fraterno amico di omosessuali e ebrei, e cercò di arruolarsi volontario nell’US Army nella prima guerra mondiale, dichiaratamente per combattere contro i “barbari Huns”, v. H.P. Lovecraft (a cura di Gianfranco de Turris e Sebastiano Fusco), L’orrore della realtà. La visione del mondo del rinnovatore della narrativa fantastica. Lettere 1915-1937, Roma 2007.
[8] In Céline e l’attualità letteraria, 1932-1957, Milano 2001, pag. 143. Pontiggia prosegue poi rilevando come, d’altra parte, il carattere “nichilista, sprezzante, irridente” del “rifiuto di tutto” di Céline lo colloca in pieno nel “carattere dominante della cultura contemporanea”. Su questo paradosso céliniano, interessanti i lavori di Loredana Trovato (cur.), L’attualità dell’antimodernità. Da Céline alle espressioni artistico-letterarie contemporanee, Lugano 2008 e di Patrizio Paolinelli, Nello specchio della modernità, Catania 2011.
[9] Pamphlet che sarebbe ad ogni modo errato considerare come marginali nell’opera letteraria di Céline; il francesista Nicholas Hewitt, riportando il disappunto con il quale la pur bendisposta critica letteraria collaborazionista accolse Guignol’s Band, scrisse come (corsivo nostro):

per Alméras, “Guignol’s Band inaugura in effetti il periodo astratto durante il quale Céline vuol essere innanzitutto stilista: Proust alla rovescia, dicono alcuni”, un periodo che si estende ai due volumi di Féerie pour une autre fois e che non cessa completamente con la Trilogia. I pamphlet avevano liberato Céline, sia strutturalmente e stilisticamente, dall’impasse nella quale si era trovato dopo Mort à crédit, e un riconoscimento implicito di ciò si trova nei debiti infratestuali in Guignol’s Band da Bagatelles pour un massacre […] Quello che Céline perfeziona nei pamphlet, particolarmente nella sezione conclusiva de Les Beaux Draps, che, come abbiamo visto, stava scrivendo contemporaneamente all’inizio di Guignol’s Band, è quella qualità astratta e percussiva del linguaggio che diventò, letteralmente, musicale: la “petite musique” dello stile céliniano non è per nulla metaforica. È al contrario uno strumento concreto per trasformare le parole da significanti a suoni.

Da Nicholas Hewitt, The life of Céline: a critical biography, Malden 1999, pag. 222.
[10] Notiamo soltanto che, per quanto dure possano sembrare al lettore odierno certe frasi, sarebbe ipocrita non considerare come, in generale, il lessico politico-militante delle varie fazioni dell’epoca, polarizzato dalle tensioni tra ideologie e nazionalismi, non era certo improntato all’esprit de finesse. Questa circostanza dovrebbe essere evidente anche a chi abbia solo una cursoria conoscenza del periodo; comprendiamo comunque come un certo milieu intellettuale valuti ancora oggi lo “sterminio di classe” cantato da Aragon e Majakovskij (vedi appendice), e imbellettato da Sartre e Brecht, in maniera più indulgente che l’antisemitismo professato dai Collabos. Per lo strabismo, dopo una certa età, non vi è infatti più rimedio.
[11] Ramon Fernandez (1894-1944), intellettuale comunista poi passato al Parti Populaire Français nel 1937 e quindi tra i Collabos, autore del saggio À la gloire de Proust ou Proust ou la généalogie du roman moderne, del 1943.
[12] La sconfitta della 6ª Armata del Feldmaresciallo Friedrich Paulus rappresenta evidentemente per Céline un momento fondamentale non solo della seconda guerra mondiale, ma anche della civiltà occidentale; infatti, molti anni dopo questa lettera, Céline dirà all’amico Pierre Duvergier:

Tra qualche generazione, la Francia sarà completamente meticciata, e le nostre parole non vorranno più dire nulla. Che piaccia o no, l’uomo bianco è morto a Stalingrado.
[13] Questa lettera inviata a Henri Poulain, segretario di redazione dal “Je suis partout” e delegato da Robert Brasillach a tenere i rapporti con Céline, non fu però data alle stampe, su decisione della redazione, per l’“attentato al morale della nazione” insito nella proposta di Céline di dividere in due la Francia. Ringraziamo Stenio Solinas per averci indicato questa singolare lettera.
[14] I “Grand Chevaux de Lorraine” erano quattro antiche e potenti casate nobiliari francesi del 1500.[15] Vedi lettera 12.
[16] Furono così soprannominati durante la guerra i giovani amanti del Jazz, riconoscibili dal loro abbigliamento vistoso.
[17] Qui Céline fonde spregiativamente il Gunga Din di Kipling con il diffuso cognome senegalese Diouf.
[18] Luigi IX (1214-1270), canonizzato nel 1297. Durante il suo regno prese delle severe misure contro gli ebrei: dalla conversione forzata, pena l’espulsione (decreto poi sospeso dietro il pagamento di un tributo) all’obbligo di portare un segno distintivo.
[19] La Gallia Narbonense, corrispondente alle odierne Linguadoca, Provenza e Costa Azzurra.
[20] L’uomo qualunque, da uno slogan pubblicitario dell’epoca della Pernod.
[21] Alexis Carrel (1873-1944), nato a Lione, noto chirurgo e biologo, premio Nobel nel 1912, ricercatore alla Fondazione Rockefeller sino al 1939, propugnatore e reggente della Fondation Française pour l’Etude des Problèmes Humains, creata dal Governo di Vichy nel 1941. La fondazione, dallo staff di 300 ricercatori e il cui ambito principale di studio era l’eugenetica, ricevette più di quaranta milioni di franchi di finanziamenti sino alla data della sua chiusura nel 1944.
[22] Yves Bouthillier (1901-1977), ispettore delle Finanze, ebbe ruoli di rilievo in diversi dicasteri francesi, anche durante Vichy.
[23] Charles Spinasse (1893-1979), politico socialista, ministro dell’Economia nel governo del Fronte Popolare, collaborò poi con il Governo di Vichy.
[24] Il Generale statunitense Douglas MacArthur (1880-1964), protagonista della guerra nel Pacifico (1941-1945) e di Corea (1950-1951).
[25] Théophile Bader (1864-1942), fondatore con il fratello Alphonse Kahn dei grandi magazzini Galeries Lafayette.
[26] Léon Frot (1900-1942), sindacalista, organizzò in sindacato i disoccupati. Catturato e preso come ostaggio dai tedeschi, fu fucilato per rappresaglia nel 1942.
[27] La percentuale d’invalidità riconosciuta a Céline per le ferite da lui riportate nella prima guerra mondiale.


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Ho letto con vivo interesse l’articolo dell’amico Pietro Cappellari sul campo di concentramento di Padula, il 371° Camp P.W., poi diventato «A» Civilian Internee's Camp. Offre una realistica immagine del nostro Paese a 150 anni dalla proclamazione del Regno d’Italia. Fa soffrire a leggerlo. Ma è così, purtroppo. Con le bandiere assenti o stracciate, più simili a cenci sbiaditi e laceri che a simboli d’onorare, con gli studenti che non conoscono la storia patria e con le guide che dicono corbellerie.
   

   Alcuni anni fa partecipai a un corso d’aggiornamento a Padula. Si teneva alla Certosa e vi fu organizzata una visita guidata. Vi ero già stato alcune volte. La guida era preparata per quanto riguardava la parte artistica, ma era all'oscuro di quanto accaduto in quel luogo nel Novecento. Non so se fosse la stessa guida di cui parla Piero. Io in quel periodo stavo facendo delle ricerche sul campo di Padula.  Avevo letto in pratica, dedicandovi molti mesi della mia vita, tutta la memorialistica dei “padulini”, gli “ospiti” del Campo di concentramento di Padula, rinchiusi nella Reggia del silenzio. Volevo scrivere un capitolo sui siciliani reclusi a Padula dal 1944 al 1945. Scrissi poi un capitolo di una quarantina di pagine sul tema. Fa parte di un libro che conto di pubblicare tra uno o due anni sui crimini compiuti dagli angloamericani in Sicilia. E’ in attesa della prossima stampa di un altro mio libro sui governi militari d’occupazione. Chiamai a parte la guida e le dissi quanto da me conosciuto. Poi me ne andai a vedere, scavalcando una parete, i disegni che i “fascisti” fecero per lasciare traccia del loro passaggio e a salutare un esperto di storia locale, con il quale ebbi un proficuo scambio d’idee sulle tristi vicende della Certosa. I disegni si stanno inesorabilmente rovinando e sono preclusi alla visita dei normali e ignari visitatori. Alcuni sono andati perduti, forse per sempre, e ne resta traccia solo in poche fotografie. Sarebbe auspicabile un intervento di chi di competenza per salvaguardare un pezzo della nostra storia nazionale. Forse qualcuno però vuol far sparire questi disegni politicamente scorretti.

   Alla Certosa furono rinchiusi prigionieri di guerra austro-ungarici durante la Grande guerra; e dal 1941 fino all’Armistizio dell’8 settembre quelli anglo-americani, in particolare gli ufficiali. Erano custoditi da militari italiani. Dalla fine del 1943 cominciarono ad arrivare i fascisti ritenuti “pericolosi” per lo sforzo bellico angloamericano, qualche comunista che dava fastidio alle autorità d’occupazione, molte donne che non si erano piegate alle voglie dei “liberatori”, e tanti sventurati che vi finirono per errore, perché non vollero ad esempio cedere una bicicletta o un orologio a un militare britannico o americano, per vendetta privata o politica. Vi furono incarcerati anche diversi tedeschi, comprese alcune donne e un omosessuale che divenne molto apprezzato per i suoi servigi nel campo.  

   Agli inizi il campo fu “attrezzato” con paglia per terra nei gelidi cameroni ventilati da ampi finestroni privi di vetri, i flats. Anche nel gelido inverno di Padula, sotto la neve, tutti, giovani e vecchi, dovevano attendere senza pietà, totalmente nudi all’aperto, il turno per sottoporsi a un’obbligatoria doccia fredda. Gli inglesi non si vergognarono di alimentare i prigionieri nei primi tempi esclusivamente con ghiande e un po’ di tè e latte, che dei guardiani indiani davano sgarbatamente. Alcuni “padulini” dovettero trascorrere lunghi mesi nelle tende, i wings, montate nel patio.

   Alla Certosa, che poteva ospitare duemila prigionieri, transitarono tanti sfortunati; considerati gli avvicendamenti in altri campi e carceri, potremmo parlare di almeno ventimila internati passati da Padula e poi finiti altrove, ad esempio a Terni. Erano chiamati corpi. A Padula, insieme a tanti poveri diavoli, furono ospitati il principe Valerio Pignatelli, capo del Fascismo clandestino al Sud - che, durante la sua prigionia, fu considerato il capo spirituale dei fascisti lì concentrati - Nando Di Nardo, suo vice, e tanti loro camerati; i fascisti clandestini del MUI (Movimento Unitario Italiano) di Catania e tanti altri civili arrestati preventivamente. A Padula fu pure imprigionato Salvatore Ruta, animatore del gruppo di fascisti clandestini di Messina, con alcuni suoi camerati. Tra le 300 donne imprigionate, spiccavano le figure della principessa Maria Pignatelli e dell’instancabile Elena Rega del Fascismo clandestino napoletano. Tra i “padulini” noti troviamo tra gli altri, Paolo Orano, Achille Lauro, Giorgio Nelson Page, Gaetano Zingali, Valentino Orsolini Cencelli. A Padula furono rinchiusi tanti ex: generali - Nicola Bellomo, poi fucilato dagli inglesi, Ezio Garibaldi -, senatori, ex consiglieri nazionali, federali, professori, podestà, avvocati celebri e il ministro Polverelli. Finì alla Reggia del silenzio anche Cesare Rossi, il memorialista del tempo della Quartarella, il periodo seguito al delitto Matteotti. Ciò nonostante avesse passato lunghi anni nelle prigioni mussoliniane, per le sue dichiarazioni contro il Duce. La logica avrebbe voluto che fossero classificati come meriti antifascisti. Gli angloamericani non ci andavano tanto per il sottile. Tra i prigionieri leggiamo i nomi di Carlo e Renato Guggenheim, ricchi israeliti di Napoli, nessuno sapeva perché non si trovassero invece tra i liberatori. Sui detenuti a Padula scrive il catanese Gaetano Zingali nel suo libro L’invasione della Sicilia: “Il più vecchio aveva 83 anni e il decano dei Siciliani, il fiero e generoso tenente generale Giannitrapani (che era considerato civile perché già fiduciario di non so quale circolo rionale di Palermo) ne aveva allora 76. Sempre a Padula vedemmo un giorno arrivare un pastorello abruzzese di undici anni, internato per passaggio di linea. In tema di umanità ricorderò anche il caso del giovane Gulisano da Centuripe, trattenuto un anno pur privo completamente di una gamba; e che fra i Siciliani ve ne erano malati di cancro, di ulcera gastrica ed altro”.

   A Padula c'erano circa 300 donne, italiane e straniere. Di tutte le età e categorie. Erano accusate di essere state ausiliarie della R.S.I., presunte o autentiche spie tedesche, femmine non disponibili verso i militari della V o dell'VIII armata, parenti d’italiani ostili agli invasori. Molto rumore destò l'arrivo nel campo di alcune giovani donne dell'Italia Centrale, punite per essersi rifiutate di essere "cortesi" professionalmente verso i "liberatori". Claudia Ressia, aveva le mansioni di “capitana” corrispondente all'incirca all'incarico di “Maresciallo” di wing nel reparto maschile. La sorveglianza del reparto femminile era affidata a una tedesca: Inge Leonard.

   Probabilmente i soli prigionieri morti alla Certosa furono i fascisti. Alcuni pagarono per la mancata o ritardata assistenza sanitaria prestata dai carcerieri britannici, come il famoso scrittore Paolo Orano; altri furono uccisi durante sfortunati tentativi d’evasione come il giovane Migliavacca, durante il quale fu ferito gravemente un altro giovane, tale Poltronieri; alcuni impazzirono a causa della detenzione.

   E’ un’ottima idea la provocazione di Pietro Cappellari, di mettere una lapida alla Certosa in ricordo degli “ospiti” di S. M Britannica là detenuti. Serve a smuovere le acque e rompere il muro del silenzio. Io penso che si dovrebbe organizzare un convegno scientifico sul tema. Per il quale offro la mia disponibilità a partecipare come relatore, per quanto di mia conoscenza. Il campo di concentramento di Padula fu chiuso nel settembre 1945. Sono passati 66 anni dalla sua chiusura. E’ ora di stabilire la verità dei fatti. Un rilevante contributo in tal senso potrebbe arrivare dalle Istituzioni, in primo luogo dalla civica amministrazione di Padula, non nuova a simili iniziative che riguardano la storia della Certosa nel 900.

   Non vorrei, che per ignoranza e/o malafede, fosse compiuto un falso storico e che le vittime diventassero colpevoli di un reato mai commesso.

  

Bagheria, 6 novembre 2011



                                                                                                 Giovanni Bartolone



Giovanni Bartolone, nasce a Palermo nel 1953, ove insegna Diritto ed economia nelle Scuole Superiori. Vive a Bagheria (Palermo). E’ laureato in Scienze Politiche, indirizzo Politico Internazionale, con una tesi sul Referendum istituzionale Monarchia – repubblica del 1946. Ha conseguito un Master sul Medio e Vicino Oriente presso l’Istituto Enrico Mattei di Roma, con una tesi dal titolo Le operazioni di stabilizzazione. I governi militari d’occupazione in Sicilia, a Napoli, in Germania e in Iraq. E' da molti anni impegnato in ricerche sulla Seconda guerra mondiale, il Fascismo, il Nazionalsocialismo, il fenomeno della Mafia, la Sicilia dallo sbarco Alleato alla morte di Salvatore Giuliano.  Ha pubblicato nel 2005 il libro Le altre stragi, Tipografia Aiello & Provenzano, Bagheria, dedicato alle stragi alleate e tedesche nella Sicilia del 1943/44 e il saggio Luci ed ombre nella Napoli 1943-1946, in AA. VV., ISSES, Napoli, 2006. E’ attualmente impegnato in studi sui crimini commessi dagli anglo-americani in Sicilia nel 1943, durante l’occupazione della Sicilia. Ha collaborato a Candido, Historica Nova e Storia del Novecento. Può
essere contattato al seguente indirizzo di posta elettronica: gbartolone1@alice.it


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